lunedì 10 gennaio 2011

Riflessioni sull' articolo di Ceronetti

Condivisibile...condivisibile in tutte le sue parti questo articolo sicuramente provocatorio di Ceronetti. L'attenzione al mondo della Lirica come disperata e tristissima icona di un passato è assolutamente calzante e non criticabile..Ma c'è un punto fondamentale che non convince nessuno a questa spietata diagnosi..La cultura è un incidente di percorso che va demolito quando diventa vecchio e antistorico? Mi chiedo come una mente brillante come quella di Ceronetti si trovi poi invischiato in delle affermazioni che vanno contro lui stesso..I suoi libri saranno ancora da leggere visto che fanno parte di un passato storico sebben recente?.I suoi articoli scritti su giornali che già il giorno dopo fanno parte del passato dovranno ancora esistere?..Attenzione..ci vuole molta attenzione a scrivere certe cose su un quotidiano in mano spesso a persone che davvero della cultura non sanno che farsene..Sorprende che sia Ceronetti a fare questa critica così feroce.Sorprende proprio che uno scrittore, persona sicuramente di cultura, demolisca in un momento una patrimonio storico, artistico e musicale come quello del Teatro lirico in Italia..Sono amareggiata perchè se anche quella che si definisce l"intellighenzia" cade in questo madornale errore significa che in Italia non c'è più possibilità di un vero risorgimento..Andiamo avanti con ballerine nude e i balli del qua qua, tanto cari a questo imbarbarito paese caro Ceronetti..forse sono meno storici..ma non credo verranno ricordati a lungo..Trasformiamo pure i Teatri in supermercati e discount..Mi dispiacerà molto al mio funerale sentire la voce di una cassiera che promuove il tre per due e non il requiem di Verdi..Chissà..magari al suo lo suoneranno..in fondo lei è ancora fortunato Ceronetti..
Silvia Russo

Se la Scala chiude, che male c'è?

GUIDO CERONETTI

Questa forma di teatro, il melodramma, l’Opera lirica, ha concluso il suo arco a metà del secolo scorso; è destinata a perdersi, è ormai un puro evento d’obbligo, ma di scarso significato. La musica invece è eterna, il teatro è eterno (di eternità per noi misurabili, che non valgono in aeternum). Ma anche nella musica per carnefici di lager c’è un soffio di eternità che vince il male; anche negli allestimenti di disperazione del Gulag c’è il soffio di eternità del teatro. Questo solo conta.

Il cartellone della Scala è, sia pure bellissimo, già un animale impagliato. Anche gli altri cartelloni... Che bisogno c’è di una stagione d’Opera al Regio di Torino? Di quelle voraci cavallette musicali dell’Arena di Verona? Non chiamiamo «cultura» un evento turistico estivo, costosamente mondano, con pizza finale di mezzanotte! La Fenice ha voluto morire, gioiello dell’epoca rivoluzionaria; ma era dal suo nome destinata a risorgere: potrà vivere di concerti. Si potrebbe lasciar vivere il Regio di Parma, dare una mano al festival rossiniano di Pesaro: Verdi e Rossini bastano, sono glorie, ricordi, e un Figaro qua e uno là fanno circensi di allegria.

Ma se con un bilancio divoratore della Scala la saggezza dello Stato (mai ci fosse) potesse restaurare degnamente Pompei, non esiterei un momento a dar tutto agli scavi e a proteggerli dall’incuria e dalla sporcizia. Un altro teatro d’Opera restaurato, anzi rifatto con genialità ammirevole è il Carlo Felice di Genova, ma con spesa molto minore può ospitare qualsiasi altro degno spettacolo.

L’Opera, come il cinema, vixit. Il suo illanguidimento progressivo è inevitabile.

Uno sprecasoldi di genio fu il più grande dei registi che lavorarono alla Scala. Non è nei miei ricordi, ero troppo giovane, ma credo alle testimonianze: una data memorabile fu quando Visconti, il 28 maggio 1955, creò con Maria Callas e Carlo Maria Giulini la sua versione della Traviata. Ce l’ho tuttora, per intero, nel vinile. La Callas fu la Voce dell’Opera della sua epoca, purtroppo obbligata allo stupro dell’imbecillità dei libretti, di cui non se ne salva uno solo. Per poter tollerare Traviata (che fin dal titolo contiene un’idiozia moralistica) bisogna non sapere nulla della trama, essere giapponesi o kazaki digiuni completamente di locuzioni italiane. Quello sciagurato Francesco Maria Piave! La stupidità concentrata nelle parole dell’Andante del vecchio Germont con l’esultante finale di Dio che esaudisce il suo voto di criminale ruffiano: è vero che la musica riscatta tutto, ma genialità e soldi per simili nefandezze fumettistiche sono ali imbrattate di petrolio.

Vixit, l’Opera, trionfalmente, nel secolo XIX; con Puccini e Boito, o Pizzetti, rantola; con Menotti è uno zombi. Bayreuth non avrebbe dovuto sopravvivere a Goebbels.

Nel XVIII l’Opera è puro svago, il suo passo è leggero. Ma l’Ottocento è sotto un segno progressivamente cupo, la moda è costrittiva e triste, il mistero musicale soccombe al tempo ed è inutile nascondercelo, il trionfo operistico è sempre più il dispiegarsi funesto del piacere per mezzo della sofferenza, richiama stuoli di sadomasochisti, le ideologie, l’antisemitismo, il marxismo, il wagnerismo, il freudismo, sono caserme in marcia. Nella Tetralogia non è tanto il Quattro a prevalere, ma la tetra-ggine che la ravvolge nel termine italiano. Quale cultura, se non necrofila, può rappresentare la ripresa, a costi vertiginosi, di una massiccia sequela di colpi in testa come La Valchiria? I capi nazisti, uno più sadomasochista dell’altro, celebravano con l’Opera wagneriana un culto di Kalì travestito da pellegrini cristiani e un Venerdì Santo delle regioni infere. Quell’immenso Incantesimo del Parsifal uccide letteralmente le nostre limitate capacità di liberare, di riscattare l’anima dalle sommersioni nella materia.

Il pubblico che va alla Scala la sera del 7 dicembre ad immobilizzarsi durante quattro o cinque ore, è impossibile immaginarlo spinto da motivi di elevazione spirituale (uso il vecchio termine del pensiero assassinato, col quale sguazzo meglio che se dico culturale). I motivi sono di vanità pura, esibizione di scollature e pettinature, significare presenza. E per questo i violini si agitano, le grandi bacchette sollevano ondate... Ma sulle facce la noia stampa, in un crescendo di afflizioni, le sue impronte d’irresistibile sbadiglio.

Tutto falso, tutto vento che ha fame.

Immancabili, sempre, le dimostrazioni politiche di chi viene apposta per lavorare all’esterno con le urla e i cartelli... Stavolta la materia infiammabile era desunta da disagi di congiuntura... o di università... ci sono poche varianti... ma la novità è stata l’assunzione da parte di un grande Direttore come Barenboim, prima dello spettacolo, della retorica piagnistea dei tagli alle sovvenzioni di Stato. Non mi pare sia stato di buon gusto recitare l’articolo Nove in presenza di Napolitano che la Carta la sa a memoria, più disposto dal suo palco ad applaudire la noia sgorgante dalla scena che a subire l’incongruità di un articolo che l’Italia aggira, frega, irride dal 1947.

Non è certo stato un gesto di cortesia, da parte del Maestro! E temo l’abbia fatto per fingere solidarietà con la piazza e di beccarsi così un’ovazione del tutto separata dai propri meriti di grande artista. Il pubblico pinguino e delle schiene nude sarebbe stato lui degno di applauso, se fosse rimasto in composto glaciale silenzio. Indigesta sempre è la verità.

È amaro pensarlo ma: se la Scala chiude, che male c’è?


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domenica 9 gennaio 2011

Alfonso Antoniozzi e la sua critica al mondo del Teatro Lirico Italiano

Diciamoci la verità, parliamo per una volta francamente anche a costo di beccarsi una bella querela e finire in tribunale.

Ci hanno preso, spolpato fino all'osso, si son mangiati il mangiabile e adesso abbandonano la carcassa. In prosa come in lirica.

Sono arrivati, si sono impossessati dei teatri, con la scusa del sostegno all'arte e alla cultura hanno messo i loro uomini (quasi sempre gente che col teatro non aveva nulla a che fare) alla testa delle programmazioni e delle assunzioni, hanno assunto chiunque volessero, hanno messo i loro protetti dietro un tavolo d'ufficio, i loro servi ai posti di combattimento, i loro portaborse alle direzioni artistiche.


Hanno svilito le professionalità presenti in teatro derogando la costruzione di scene e costumi a società terze, presumibilmente mangiandosi una fetta degli appalti (non ho le prove, ma non mi servono. Come diceva Pasolini: io sono un intellettuale, non un magistrato, non sta a me cercarle. Le cose le so perchè ho gli occhi che vedono e il cervello che tira le somme).
Hanno ridotto le sarte teatrali italiane a mere attaccatrici di bottoni e riparatrici di orli, i nostri macchinisti e scenotecnici a meri rifinitori di imperfezioni e schiacciolatori di cantinelle, facendo prosperare scenotecniche e sartorie esterne.

Hanno permesso a registi e scenografi e costumisti di usare i loro scenotecnici e sarti di fiducia, in alcuni casi fottendosene allegramente del fatto che alcuni di questi registi e scenografi e costumisti erano in partecipazione societaria con le società scelte.

Hanno commissionato scene e costumi a celebri artisti italiani (Pomodoro, Guttuso, De Chirico...) per poi esporli una volta e lasciarli marcire nei magazzini o dandogli fuoco per far spazio a nuovi stoccaggi.

Hanno strapagato, sì, strapagato cantanti lirici. Cinquanta milioni a sera per una Turandot che arrivava alla generale. Trenta milioni a sera per un Calaf che non portava a termine l'opera. Cinque milioni a sera per dire una frasetta. Io c'ero. Lo so.

Hanno permesso ad alcuni agenti senza scrupoli di fare il bello e il cattivo tempo, probabilmente anche in questo caso per personali tornaconti economici, se non per mera cecità e incapacità gestionale. In entrambi i casi, nessuna scusante.

Hanno assunto otto portieri per teatri in cui ne bastavano due. Dieci addetti stampa quando ne bastavano tre. Venti ragionieri quando ne bastavano cinque.

Hanno chinato il capo di fronte ad assurde richieste sindacali: decenni di indennità di trasferta per teatri senza sede perché in restauro trentennale, quando il teatro di ripiego era a cinquecento metri dalla sede naturale.

Hanno firmato il via libera ad allestimenti miliardari che non potevano in nessun modo essere ammortizzati. Sì, miliardari. Io c'ero. Lo so. Hanno coprodotto spettacoli inamovibili che in nessun modo avrebbero potuto esser portati in un altro teatro perché non si è tenuto conto delle specifiche tecniche.

Ci hanno saccheggiati, spolpati, ridotti all'osso. E adesso ci dicono "arrangiatevi".

La nostra colpa? Quella di aver taciuto. La nostra vergogna? Quella di aver, nei limiti del possibile, mangiato anche noi (ma se non altro noi stavamo facendo il nostro mestiere e obbedivamo alle leggi del mercato vigente). La nostra discolpa? Quella di esser stati sempre dei cani sciolti, che se avessero parlato sarebbero stati allontanati con una pedata, perdendo il lavoro. Chi ci ha provato, come me e altri come me, lo sa. Ancora ricordo la risposta : "Voi avete ragione, ma tenete conto che se insistete su questo punto non metterete mai più piede in questo teatro".

E anche adesso, non mollano. Vogliono anche il midollo. Non se ne vanno.

E noi, noi artisti, noi tecnici, noi registi, noi macchinisti, noi artisti del coro, noi elettricisti, noi sarte, noi professori d'orchestra siamo costretti a cercarci lavoro altrove o ad inventarcene un altro perché non solo non ci finanziano, ma non si inventano uno straccio di soluzione politica, una legge che ci consenta di far bene e senza sprechi il nostro mestiere.

Non se ne vanno. Piuttosto chiudono i teatri. Piuttosto li lasciano marcire. Ma non se ne vanno. Non se ne andranno mai.

E ancora adesso, abbiamo paura di parlare e di far fronte comune. Comune. Insieme a tutti quelli che lavorano in teatro e che di teatro sono appassionati.

Continuiamo pure ad aver paura. Presto, non ci sarà più nessuna ragione di preoccuparsi di perdere il lavoro: ci avranno costretti da tempo a trovarcene un altro.

Facciamo casino, ragazzi, tutti insieme. Riprendiamoci i nostri teatri, riprendiamoci il nostro mestiere, riprendiamoci la nostra vita.

ALFONSO ANTONIOZZI